Qualche settimana fa è stato pubblicato su Repubblica un articolo dal titolo provocatorio “Condannati alla felicità”. Nell’articolo, Giuliano Aluffi ironizza sul fatto che oggi, i responsabili delle risorse umane “sono sempre più inclini a pretendere la felicità dai dipendenti” e cita un saggio del sociologo inglese Wiliam Davies secondo cui le aziende stanno investendo tante risorse per rendere i propri dipendenti felici e chi non si mostra entusiasta viene visto come un sabotatore.
Ora se è vero che oggi, rispetto al passato, oggi c’è una maggiore attenzione da parte delle organizzazioni alla felicità dei dipendenti che viene vista sempre di più come una possibile leva di produttività (alcuni studi hanno infatti dimostrato che la felicità dei dipendenti può aumentare la produttività fino al 12%) è anche vero che sono poche, almeno in Italia, le imprese che hanno affrontato approfonditamente questo tema sapendolo poi tradurre in un preciso e concreto piano di attività in modo da poter garantire quella sistematicità e costanza che producono poi buoni risultati anche di produttività oltre che di qualità. Non basta infatti avere persone che sorridono in ufficio, come sembra far intendere Aluffi, ma servono soprattutto persone coinvolte nel proprio lavoro, nei propri compiti impegnativi, ma raggiungibili. Questo è il concetto che Mihàly Csikszentmihàlyi, psicologo della Claremont Graduate University in California ha chiamato “flusso” nel suo studio dedicato proprio alla felicità. In quest’ottica è fondamentale il ruolo non solo della Direzione Risorse Umane, ma anche di tutti i “capi intermedi” che devono essere capaci di guidare i propri collaboratori fissando obiettivi condivisi, distribuiti nel tempo e ben calibrati sulle loro potenzialità e motivazioni.
Oggi aumenta, infatti, il numero delle aziende, soprattutto multinazionali (come ad esempio la svedese Scania citata anche nell’articolo di Aluffi), che raccomandano ai lavoratori uno stile di vita morigerato e salutare anche nel loro tempo libero. Certo lo fanno pensando che probabilmente ciò avrà una ricaduta positiva per loro dovendo le persone lavorare per periodi sempre più lunghi della loro vita. Occorre però anche considerare che questo tentativo di spronarli ad una vita più sana, caratterizzata da una dieta bilanciata e da un esercizio fisico quotidiano, è certo anche un modo per contribuire al benessere del lavoratore e farlo vivere non solo più a lungo (è ormai risaputo che l’aspettativa di vita aumenta – in Italia 82 anni), ma soprattutto meglio, cioè con una qualità di salute migliore (è invece meno conosciuto che l’aspettativa di vita sana diminuisce – in Italia 61 anni). Appare allora strano che in questo articolo si voglia “mettere in guardia” le persone da questo tentativo delle aziende di “espandere” il loro controllo nella vita privata.
E’ opportuno forse ricordare che in alcuni paesi esteri chi non segue alcune linee di prevenzione consolidate e poi si ammala debba pagare un extra-ticket per i servizi sanitari di cui usufruisce non essendo considerato giusto che questi costi sociali in più, dovuti ad una loro scelta personale, debbano gravare sulle tasse degli altri concittadini.
Il ragionamento proposto da questo articolo sembra quindi un po’ paradossale; simile a quello dei principi italiani post congresso di Vienna (1815): abbattevano bellissimi ponti funzionanti sul Po solo perché li aveva costruiti Napoleone. In conclusione: condannati alla felicità ed a una vita in piena salute? Magari!