di Fabio Cecchinato [1]
Neurosystemics n° 25/2024
È possibile la felicità nell’esperienza di lavoro? Non sembra realistico negare che il lavoro sia intrinsecamente legato anche alla fatica, alla difficoltà del confronto con il reale e con la sua resistenza, con gli altri, talvolta anche allo stress e alla sofferenza. Tuttavia è importante non dimenticare che il lavoro resta nella nostra società una sfera centrale della vita, anzi, per molti di noi, a torto o a ragione, la sfera centrale, dalla quale dipende molto del nostro equilibrio identitario e psicologico, del nostro benessere e perché no, della nostra felicità o infelicità.
In questo articolo vorrei esplorare alcuni aspetti che sembra realistico mettere in relazione con la felicità nel lavoro. Data l’ampiezza del tema vorrei semplicemente evidenziare alcuni aspetti che non sempre sono tenuti nella dovuta considerazione quando ci si interroga sui temi del benessere e della felicità nel lavoro. Sono aspetti che si possono tutti definire come variabili intrinseche all’esperienza del lavoro, ci terremo in questo articolo infatti al di fuori del territorio delle dimensioni estrinseche, quello della total compensation, dell’insieme degli elementi che costituiscono lo scambio in senso lato economico tra la persona e l’organizzazione.
La natura del lavoro
Penso sia importante avviare la nostra riflessione ponendosi una domanda inusuale data la apparente ovvietà della risposta: cosa è il lavoro?
Il lavoro non appartiene alla sfera della mera attività e della produzione, ma possiede a pieno titolo lo statuto dell’agire.
Il lavoro inevitabilmente e intensivamente, mobilita l’agire morale e pratico, orientato al vivere insieme, e l’agire espressivo, che mette in gioco profondamente le dimensioni identitarie. Il lavoro si sviluppa in tre sfere interdipendenti, quella fisica, quella sociale e quella soggettiva e può essere pensato e valutato solo attraverso criteri e categorie che si riferiscano a tutte queste diverse sfere della vita.
Il lavoro come confronto con il reale, con la sua resistenza, convoca in profondità l’intelligenza e il coinvolgimento della soggettività, esso implica dei gesti, un saper fare, un coinvolgimento del corpo, una mobilitazione della capacità di riflettere, di interpretare e di reagire alle situazioni, nonché di agire, anche nel senso politico, assumendo iniziative. Lavorare è collocarsi al centro della divaricazione perenne tra il prescritto e il reale, è cercare di colmarla interpretando le prescrizioni per raggiungere gli obiettivi. Esso non è quindi una mera opera di produzione, ma è al contempo un’opera di interpretazione del reale, di agire creativo, di trasformazione di se stessi. Si lavora sempre con altri e per altri, il lavoro è sempre una attività sociale, cooperativa e collettiva.
Per tutti questi motivi il lavoro è uno spazio insostituibile di mediazione psicologica e identitaria. Il lavoro è il solo principio pacificatore nella vita ordinaria, uno spazio nel quale l’uomo apprende a negoziare, costruire una regola condivisa, scopre la vita sociale e al contempo accresce la propria padronanza del mondo.
Il lavoro permette agli uomini di incontrarsi, di vivere insieme, di evitare la violenza confrontandosi insieme con il reale, immaginando insieme delle soluzioni, trovando dei compromessi, costruendo solidarietà che istituiscono regole del vivere insieme.
Sulla base di queste premesse appare evidente come l’esperienza di lavoro possa collegarsi molto strettamente con la questione della felicità riconoscendo che in certe condizioni il lavoro è un mediatore indispensabile della realizzazione di sé, e quindi anche della possibilità della felicità, ma in altre condizioni la possa seriamente compromettere, disonorando eticamente il lavoratore o destabilizzandolo nella sua identità anche con gravi conseguenze psicologiche, cliniche ed esistenziali.
L’ipotesi che propongo all’attenzione dei lettori è che la possibilità della felicità o almeno il contenimento dell’infelicità nel lavoro sia collegata a quattro aspetti dell’esperienza lavorativa:
- il piacere di pensare e di esercitare la propria intelligenza
- il riconoscimento del proprio contributo
- la sostenibilità psico-fisica dell’esperienza di lavoro
- la qualità etica dell’esperienza di lavoro
Questi quattro aspetti indicano anche delle direzioni di lavoro rilevanti per una gestione delle risorse umane che proponga di farsi carico della questione della felicità nelle organizzazioni. Proviamo di seguito ad esplorare questi sentieri.
1 – Coltivare la capacità di pensare e “autorizzarla”
Non c’è organizzazione che non affermi di investire per coltivare le competenze dei suoi membri. La prospettiva della felicità richiede tuttavia di dare priorità allo sviluppo delle capacità di comprendere i problemi e i fenomeni della vita organizzativa, analizzarli, definirli, interpretarli. In altre parole la prima capacità oggetto di sviluppo dovrà essere quella del pensiero, della ricerca, dell’esercizio attivo dell’intelligenza applicata alla vita di lavoro. La finalità di sviluppo prioritaria sarà la capacità di pensare nell’esperienza di lavoro, perché al pensare, al ricercare, all’esercizio della propria intelligenza è collegato un piacere primario. Connessa alla capacità di pensare è la capacità di riflettere sull’azione compiuta, sui suoi effetti e sulle sue implicazioni.
Investire nella coltivazione del triangolo pensare-agire-riflettere significa assumere una finalità educativa profondamente diversa da quelle perseguite oggi diffusamente nei processi formativi promossi dalle funzioni HR. Oggi e da alcuni decenni le funzioni del personale si orientano infatti ad una pratica formativa basata sulla promozione dell’allineamento a modelli comportamentali precostituiti e spesso non specifici rispetto ai singoli contesti, un esercizio che non promuove l’uso dell’intelligenza.
Promuovere e legittimare il “lavoro di organizzazione”.
Autorizzare a pensare significa legittimare deleghe, proposte, letture, cambiamenti, innovazioni, autonomie e operare per la costruzione delle condizioni affinchè i soggetti possano esprimere pienamente il proprio potenziale di pensiero e iniziativa. Il management autorizzante, nonostante il dilagare della retorica superficiale del coaching, costituisce una frontiera della leadership ancora da esplorare davvero.
Assumere come obiettivo la promozione della felicità, o il contenimento dell’infelicità lavoro-correlati, significa in particolare riconoscere l’importanza decisiva del promuovere ciò che definiamo “lavoro di organizzazione”, o “organizing”, ossia il lavoro sociale e collettivo di riflessione e interpretazione dell’esperienza lavorativa e di costruzione di principi, procedure e regole condivisi in grado di orientare l’azione professionale dei soggetti.
Questi spazi, in cui gli attori possano riflettere insieme e discutere sulla loro esperienza di lavoro reale, ma anche armonizzare e sintonizzare il loro operato, risolvere problemi, assumere decisioni e stabilire regole che orientino l’azione, sono spariti, in numerose organizzazioni appaiono letteralmente e radicalmente estinti e anzi visibilmente osteggiati come una inessenziale inefficienza. Tale cancellazione degli spazi di deliberazione collettiva costituisce una grave compromissione della qualità del vivere insieme e del capitale sociale e fiduciario, che sospinge i soggetti in una logica del ciascuno per sé segnata dalla solitudine e dalla desolazione (Dejours 2012), agendo certamente come un fattore infelicitante.
L’estinzione dei luoghi di elaborazione sociale dell’esperienza di lavoro ha conseguenze profonde sia sul piano della sofferenza degli attori che sul piano della efficacia del funzionamento organizzativo, effetti che restano ad oggi nella penombra di un angolo cieco, largamente impensati ed analizzati.
2 – Riconoscere
La cooperazione pensante al lavoro di organising dipende dalla volontà dei soggetti di assumere il rischio di esporre le loro opinioni. Questa mobilitazione del singolo a dire, esprimere la sua esperienza e la sua opinione coinvolgendosi in un dialogo, è molto fragile (Dejours 2012) e il suo mantenimento deriva soprattutto dalla aspettativa che il soggetto nutre di una retribuzione simbolica come contropartita per il suo investimento. Questa retribuzione, per la quale gli attori accettano di esporsi e coinvolgersi nel dialogo con altri sul proprio lavoro e accettano di rispettare le decisioni comuni, consiste nel riconoscimento sociale del loro contributo personale all’organizzazione del lavoro. Affinchè si produca questo senso di riconoscimento è indispensabile che le autorità gerarchiche riconoscano che l’organizzazione del lavoro prescritta ha dei limiti e che sia necessario ricorrere alla conoscenza e al sapere dei lavoratori per far funzionare al meglio i processi.
Questo riconoscimento del proprio contributo all’organizzazione del lavoro e alla messa a punto delle regole condivise si riferisce nel contenuto all’esperienza di lavoro, ai contributi proposti dai soggetti, al valore concreto da essi apportato nell’esercizio dei loro ruoli, ma svolge anche una funzione secondaria molto rilevante, che agisce sul piano del riconoscimento identitario, e quindi anche della felicità.
Il punto essenziale è che il riconoscimento è inizialmente relativo al contributo professionale non solo nell’esercizio diretto del proprio ruolo ma anche nella partecipazione collettiva a quello che abbiamo definito lavoro di organizzazione, dove è importante che si senta riconosciuta la pertinenza del rapporto conoscitivo e interpretativo del soggetto con il reale, in altri termini la sua intelligenza dell’esperienza messa a disposizione nella discussione deontica. Questo riconoscimento del contributo, una volta sperimentato e interiorizzato dal soggetto, può liberare i suoi effetti anche dal punto di vista identitario e ritornare sotto forma di rafforzamento dell’autostima e della propria solidità identitaria e quindi del benessere o della felicità nel lavoro.
Nelle organizzazioni in cui tali spazi di elaborazione e deliberazione siano stati ristabiliti le persone lavorano meglio, l’entusiasmo ritorna e l’energia si moltiplica a livello individuale e collettivo, insieme alla produttività e, forse, alla felicità.
3 – Investire nella sostenibilità dell’esperienza di lavoro
La parola sostenibilità è ormai entrata nel linguaggio e nell’agenda di numerose organizzazioni che non di rado hanno istituito uffici proprio con questo nome. Un esame delle pratiche concrete attivate dalle organizzazioni evidenzia come la questione della sostenibilità dell’esperienza di lavoro per i dipendenti e in generale per i lavoratori coinvolti nell’impresa non sia spesso al centro dell’attenzione del management. Accade così frequentemente che le organizzazioni sviluppino un atteggiamento scisso nei confronti della qualità della vita di lavoro che esse offrono: da un lato assumono numerose iniziative nella linea della sostenibilità nel rapporto con diversi stakeholder esterni, comunità, territori, clienti, e le comunicano con accuratezza, dall’altro restano vittime della ingiunzione del discorso managerialista a negare la realtà del vissuto dei lavoratori e proseguono con buona coscienza a esercitare o tollerare pressioni e molestie e a favorire condizioni di stress molto elevato per i propri lavoratori e manager, limitandosi alla pratica periodica delle analisi di clima, che normalmente non sono in grado di restituire un quadro informativo obbiettivo sul piano dei rischi psicosociali che riguardano i lavoratori.
Le imprese davvero interessate ad investire nella qualità della vita dei lavoratori e ad assumere una volontà di comprensione e intervento su questo terreno avrebbero la possibilità di andare oltre utilizzando strumentazioni e modalità di intervento codificate e radicate nella tradizione e nella cultura psicosociologica europea che hanno dimostrato una notevole efficacia nell’aiutare il management a comprendere la qualità effettiva della vita di lavoro, a valutare i rischi psicosociali ad essa connessi e ad intraprendere iniziative capaci di incidere concretamente sul problema.
E’ oggi necessario un ripensamento profondo della relazione tra disagio lavoro-correlato e efficacia organizzativa. La visione managerialista spesso propone una rappresentazione scissa del problema: il problema dell’efficacia riguarda l’organizzazione, quello del malessere riguarda gli individui. In questa prospettiva, dal punto di vista dell’organizzazione, il disagio dei lavoratori, non è un tema veramente rilevante, è rappresentato come una sorta di questione di lusso che si può affrontare solo quando vi sia quella eccedenza, che mai si presenta, di attenzione, risorse e tempo che lo consenta, ma più nella logica del welfare aziendale che nella logica della preoccupazione per l’efficacia del funzionamento organizzativo.
L’ipotesi alternativa che qui si propone è invece che il malessere lavorativo abbia sia una radice profonda nei funzionamenti organizzativi sia un impatto profondo e pervasivo su di essi, generando costi occulti e impasse di enorme portata e dovrebbe pertanto essere assunto come oggetto preminente di attenzione da parte della governance aziendale.
Le organizzazioni che producono una elevata quantità di sofferenza sono inefficaci e inefficienti, ma fanno culturalmente fatica a rendersi consapevoli della connessione tra i due aspetti e a vedere che riconoscere e affrontare il disagio che le abita è una potente opportunità di apprendimento ed evoluzione organizzativa.
Limitare la competizione distruttiva e la produzione di ansie e angosce
Molte organizzazioni hanno eretto un’autentica teologia della competizione individualistica e meritocratica premiando le condotte più aggressive e competitive e valorizzando i manager che instillano con le loro comunicazioni e le loro condotte il senso della lotta per la sopravvivenza, della guerra, dell’emergenza, della urgenza, della drammaticità del momento, della incertezza e della insicurezza, della precarietà, del rischio. La metafora della guerra come lotta violenta per la sopravvivenza individuale e organizzativa sembra, nel clima attuale di crisi, dominare l’immaginario delle imprese.
Queste rappresentazioni improntate alla metafora della guerra, che la vulgata manageriale vorrebbe in grado di stimolare le energie delle persone, producono invece in larga misura gli effetti opposti: esse stimolano la generazione di ansie e angosce che finiscono con il rafforzare i sistemi di difesa individuali e collettivi, molto più che non stimolare l’impegno produttivo per le finalità organizzative.
I sistemi di difesa contro l’ansia costituiscono per definizione un costo organizzativo, in quanto dislocano quantità significative delle energie psichiche sui meccanismi di difesa e sulla costruzione di rappresentazioni deformate della realtà.
La stimolazione della aggressività sociale favorisce la disgregazione del capitale sociale che, nelle attuali organizzazioni matriciali caratterizzate da elevatissimi livelli d’interdipendenza, costituisce un asset di primaria importanza.
La stimolazione della competizione e dell’ansia è quindi un comportamento manageriale che alimenta i rischi psicosociali dell’impresa e contribuisce alla distruzione di valore, oltre che della possibilità della felicità nel lavoro.
4 – Testimoniare e favorire una cultura dell’etica come fondamento della vita organizzativa
La vita di lavoro e in particolare l’esercizio del ruolo manageriale sono intessuti di aspetti e giudizi etici, anche se questa connotazione morale è largamente negata e mistificata dal discorso manageriale ordinario.
Si può arrivare a dire che il discorso manageriale, nel suo complesso, è uno strumento per la cancellazione della responsabilità morale attraverso un gioco linguistico fondato su una regola che vieta l’uso del vocabolario etico (Cecchinato 2009).
Questo discorso, quale si esprime nei testi di management e in molta formazione, ha l’effetto di sottrarre agli attori i mezzi e le categorie, oltrechè le occasioni, per affrontare le questioni morali di cui il lavoro è comunque intessuto, impedendo di riconoscerle nella loro natura etica e non tecnica. L’esperienza di lavoro privata della sua connotazione etica è un’esperienza desolata, nella quale la felicità è impossibile.
La sofferenza etica nell’esperienza di lavoro.
Questa negazione, nel suo triplice piano identitario, sociale e politico determina spesso ciò che definiamo qui “sofferenza etica”, ossia, da un lato, la percezione dolorosa delle lesioni autobiografiche provenienti dalle azioni e dalle richieste che contraddicono l’essenza e la continuità del proprio bios, ossia dei propri significati identificanti e valori, dall’altro la percezione, altrettanto dolorosa, della sofferenza altrui generata con il proprio contributo o almeno grazie alla propria indifferenza (Cecchinato 2009).
È la sofferenza del tradimento di sè, del ritrovarsi a compiere azioni in cui non ci si riconosce o che si disapprovano interiormente, che si riconoscono come distruttive, cedendo agli imperativi del contesto organizzativo o del proprio interesse, o dell’esigenza di sopravvivere e restare a galla in un sistema culturale e operativo che le richiede. Il fenomeno che definiamo sofferenza etica riguarda il compiere azioni che si disapprovano moralmente in quanto contrarie ai valori costitutivi della propria identità, ma anche più in generale il compiere azioni che si avvertono come dissonanti e incompatibili con la propria coerenza e la continuità biografica ed esistenziale del proprio agire (Cecchinato 2009).
Il secondo senso dell’idea di sofferenza etica è quello del disagio generato dalla percezione della sofferenza altrui, dallo spettacolo e dalla consapevolezza del dolore vissuto dagli altri.
La sofferenza etica si produce per ragioni e secondo forme diverse, secondo alcune possibilità tipiche che derivano dalla relazione tra due variabili: il livello di adesione e di identificazione con la cultura organizzativa e il livello di inibizione etica, ossia la forza e la cogenza della propria esigenza di coerenza identitaria, di altruismo e di giustizia. L’incrocio di queste variabili dà luogo a quattro possibili posizioni, ciascuna generatrice di uno specifico tipo di sofferenza etica: l’opportunismo individualista (1), l’adesione burocratica o narcisistica (2), la conflittualità scissa (3), la resistenza (4).
La posizione dell’opportunismo individualista (1) è tipica delle persone con un basso livello di identificazione con gli interessi del sistema e al contempo di un basso livello di inibizione etica. Gli attori rientranti in questa categoria possono facilmente approfittare dell’eliminazione della prospettiva etica dalla vita organizzativa per agire comportamenti distruttivi, sia a livello micro-sociale che a livello più sistemico, nella forma della violenza, della minaccia, della produzione di sofferenza altrui, della manipolazione della verità, dell’inganno, della crudeltà. Le persone con questo profilo sono esposte al rischio di disagio per la percezione della sofferenza prodotta negli altri in particolare quando le difese individuali o collettive miranti a proteggerli dalla consapevolezza della distruttività agita divengano insufficienti.
L’esecutore burocratico (2) ha interiorizzato a tal punto gli obiettivi organizzativi e la visione del mondo tecno-economica da essere disponibile ad agire distruttivamente e a produrre sofferenza pur di raggiungere i risultati prescritti. Compie azioni distruttive, apparentemente senza consapevolezza della qualità etica di ciò che fa, nell’interesse della ragion di stato organizzativa. Il modello tipologico è qui l’arendtiano Eichmann (Cecchinato 2009).
La posizione di adesione narcisistica (2) è quella di chi si è a tal punto imprigionato nella stretta dell’esigenza di conferme narcisistiche, che alimenta con l’energia del suo desiderio di riconoscimento del proprio valore, che sull’altare di questa gratificazione è disposto ad accettare qualsiasi costo umano. Ciò che conta per lui è solo ed esclusivamente ottenere il riconoscimento gratificante della sua efficacia, e siccome essa coincide con l’eccellenza professionale, ossia con l’interesse organizzativo, ogni costo umano, ogni sofferenza lasciata ai margini del suo cammino sono per principio ai suoi occhi giustificati.
Queste persone sono tipicamente esposte al rischio del disagio derivante dalla percezione della sofferenza provocata agli altri, quando i sistemi di difesa individuali e collettivi perdono la loro efficacia protettiva. Inoltre la loro forte identificazione con gli interessi organizzativi può condurre, nei momenti di autenticità e di ascolto di sé, a sperimentare la sensazione dolorosa del tradimento di sé e della mancanza di autenticità e di autoriconoscimento nella propria vita.
Nella terza posizione (3) incontriamo le persone con un alto livello di identificazione con gli interessi organizzativi e al contempo un alto livello di inibizione etica, che quindi vivono spesso un forte conflitto interno tra le esigenze dell’organizzazione e la loro identità etica. Tale conflitto può generare acuta sofferenza, condotte incoerenti, condizioni di nevrosi e scissione della personalità.
Nella quarta posizione (4) troviamo le persone con un alto livello di inibizione etica e un basso livello di identificazione con gli interessi del sistema, che su di loro esercita poca presa. Sono le persone che tendono ad essere emarginate dal sistema in quanto resistenti al suo dominio, indipendenti, critici, percepiti come rigidi rispetto alla richiesta di infinita disponibilità e flessibilità, anche etica, che l’organizzazione avanza. Queste persone pagano un prezzo elevato per la loro indipendenza identitaria, affrontano spesso il costo dell’emarginazione o della esclusione dalle opportunità, della mancanza di riconoscimento del loro valore, dell’onerosa resistenza alle pressioni omologatrici, e infine della sensazione di abitare un contesto nella cui cultura e nelle cui prassi non è possibile riconoscersi.
Le organizzazioni interessate a promuovere la felicità, seppure realistica e sostenibile, nelle proprie organizzazioni considereranno esplicitamente la qualità etica dell’esperienza di lavoro come un aspetto decisivo, operando affinchè le implicazioni etiche di decisioni e comportamenti, anziché essere un aspetto sistematicamente censurato e culturalmente silenziato come è accaduto per decenni nelle organizzazioni, divengano oggetto normale e incentivato di riflessione e di discussione e si sviluppi una cultura dei rapporti con le autorità che favorisca e premi i soggetti che sollecitino riflessioni ed esprimano critiche con coraggio e siano in grado di dire no quando la coerenza etica con i valori dichiarati lo richieda (Cecchinato 2009; Cunliffe 2017).
La qualità etica dell’esperienza di lavoro influenza grandemente la possibilità della felicità nelle organizzazioni.
Bibliografia
Alvesson M., Willmott H., 1996, Understanding Management, Sage Publications, Londra.
Bauman Z., 1996, Le sfide dell’etica, Feltrinelli, Milano.
Boltanski L., Chiapello È., (1999), Le nouvelle esprit du capitalisme, Gallimard, Paris
Cecchinato F., 2009, Etica: la sfida dei manager, Guerini e Associati, Milano.
Cunliffe A.L., 2017, Il management, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Dejours C., 2000, L’ingranaggio siamo noi, Il Saggiatore, Milano.
Ehrenberg A., 2010, La società del disagio, Éditions Odile Jacob, Parigi.
Ehrenberg A., 2011, Le culte de la performance, Fayard, Parigi.
Honneth A., 2000, La lutte pour la reconnaissance, Folio Essais, Parigi.
Sennett R., 2012, Insieme, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano.
Vidaillet B., 2013, Evaluez moi!, Seuil, Parigi.
[1] Parner IEN